A fine dicembre ho pubblicato cinque canzoni, scritte da me e realizzate con l’intelligenza artificiale. Mi ero detta: i cantanti fanno i conduttori televisivi, i conduttori televisivi fanno le interviste, i social media manager fanno i giornalisti, i giornalisti fanno gli influencer, gli influencer fanno il sindaco di Milano.
Chi sono io per non fare un mestiere che non è il mio?
Anche se in realtà c’era del giornalismo, nel mio primo disco, e c’erano alcuni temi che alle idi di marzo sono esplosi, incastrandosi l’uno nell’altro.
Ad esempio, la hit che si è guadagnata il vertice della mia personale classifica mondiale (fantasiosa come tutte le classifiche sulle quali si reggono le piattaforme contemporanee) si intitola Tra iene e sciacalli ed è una critica al mercato della cronaca nera, alla moda della cronaca nera, all’ossessione per la cronaca nera, alla cronaca nera intesa come un gioco da Settimana Enigmistica.
Guasto generale invece giudicava disperata la scelta di Fedez e Mr. Marra (senza il cash) di invitare nel loro studio Roberto Vannacci. In effetti quella puntata rimane ad oggi l’unica che abbia superato il milione di visualizzazioni, prima del tracollo.
L’anello di congiunzione tra la nera e il generale era Bravi tutti, una canzone che racconta la storia triste di uno che tenta di denunciare alla Polizia dei Podcast un podcast di merda ma purtroppo gli uffici sono sempre chiusi (mi chiedo: vi è mai capitato di leggere una recensione negativa su un podcast? Ed è plausibile questa percentuale bulgara? Oppure, in questo ambito, è vietato esprimersi liberamente? E perché state pensando proprio a Pablo Trincia?).
Il fatto è che Pulp Podcast ha prepotentemente virato verso il crime. Prima con il caso Orlandi (due puntate addirittura), poi con P. Diddy (“Il rapper milanese condivide dettagli scottanti sul produttore accusato di crimini gravi” - mente, sapendo di mentire, Vanity Fair da sempre tenerissima nei confronti di Fedez, forse perché è stata media partner di quel progetto ambiguo chiamato “Wolf”); poi con la complicità di Pino Rinaldi e la vicenda UnaBomber; infine con il Mostro di Firenze e Zodiac, raccontati da “una semplicissima impiegata milanese con la passione per questo caso giudiziario” (si descrive così tale Valeria Vecchione) e “il più bravo grafico d’Italia, ma anche investigatore indipendente, amante dei misteri e dei gialli”, tale Andrea Rebuscini. (Il meme di riferimento è: Confused Travolta).
Sembra abbastanza chiaro che l’improvvisa folgorazione dei due conduttori per la cronaca nera vado inserita in un quadro molto più ampio. E’ che la nera tira come nient’altro al mondo. E a dire il vero Fedez e Mr. Marra non si sono inventati niente di nuovo, cavalcano l’onda come chiunque altro.
Come la Rai - che ha il palinsesto invaso dai misfatti a tutte le ore del giorno, oltreché della notte; come Masterchef - e quella brillante idea di far cucinare ai concorrenti “un piatto criminale”; come Ilary Blasi - che nell’omonima serie tv un po’ si fa leggere i Tarocchi e un po’ studia per essere ammessa a un corso in Criminologia dell'Università di Milano, facendosi aiutare da Federica Sciarelli per superare il test (mi porto avanti di qualche anno sull’inevitabile: in ogni Procura una maga di Posillipo; le indagini sull’omicidio di Liliana Resinovich saranno infine affidate a un cartomante; il nome di Joe Bevilacqua stava scritto nelle Foglie del Destino).
Questo - il fatto che la cronaca nera assicuri un successo in termini di share - non significa che non si possa pretendere un altro tipo di narrazione. Nè che sia impossibile ribellarsi, o almeno denunciare l’avidità e l’ignoranza di un certo tipo di racconto.
“La cronaca nera dei quotidiani e delle televisioni appare come l’approccio più asfittico al crimine, sia perché forzatamente sbrigativo, sia perché da realizzare in tempo quasi reale, sia perché la cronaca nera deve rispondere ai suoi committenti finali. Il pubblico dei lettori e dei telespettatori vuole il mostro, il maniaco sanguinario capace di qualsiasi efferatezza, la bestia che toglie il sonno, il serial killer che si mangia il cervello delle vittime, ne beve il sangue. Oppure vuole il giallo, il mistero, l’ingarbugliamento dei fatti, il credersi l’unico capace di risolverli, in una discussione da bar, da sala d’aspetto. Vuole ancora di più: il linciaggio puntuale, vigliacco, dei colpevoli, il processo di piazza, la gogna, il patibolo. Vuole il potere di vita e di morte sull’accusato, senza dargli la possibilità di difendersi, o perché è già morto, o perché non trova nessuno che lo sta ad ascoltare. Il giornalista, insomma, rischia di diventare una specie di boia per procura, molti - soprattutto fra quelli della carta stampata - riescono a sottrarsi, ma è proprio quando non ce la fanno che si avverte tutto quanto il peso della loro defezione”
Questa citazione è tratta da Il male stanco - Alcuni omicidi quotidiani e quello che ci dicono di Luigi Bernardi, pubblicato nel 2003 dalla casa editrice Zona. E’ un libriccino che ha avuto poca fortuna ma a distanza di vent’anni è ancora tremendamente attuale e istruttivo. Oggi, forse molto più di allora, dovremmo considerarlo un faro, nel modo di affrontare la nera:
“Ogni tanto qualcuno mi chiede perché insisto a raccontare storie di delitti: non sono forse gli omicidi in costante diminuzione, come dicono le statistiche? E’ vero, in dieci anni gli omicidi in Italia si sono ridotti a meno della metà, ma questo vuol dire poco. […] Il problema semmai è come si raccontano questi omicidi, quali sensazioni cercare, da quali rifuggire. Il primo pericolo è quello di ridurli a ‘gialli’, è un pericolo di doppia natura, di approccio e di comprensione. Raccontando certi omicidi come fossero dei ‘gialli’ è inevitabile trasformare tutti i personaggi in figure di carta, senza spessore né odore, spogliarli di vita e di dramma, renderli funzionali a quella che non è più una ‘storia’ ma un intreccio, equiparare momenti di sofferenza assoluta al gioco del ‘se fosse’. In altre parole, dimenticare che da quella vicenda qualcuno non si è più rialzato. Il secondo pericolo è che il meccanismo del giallo toglie al crimine il tempo suo. Da Rina Fort a Erika De Nardo sono passate generazioni, modi di vivere e di pensare. Il plastico del luogo del delitto, le figurine distese a terra, non aiutano a capire questo cambiamento, lo negano anzi con pervicacia, strappano la storia al suo contesto, lo riproducono come un simulacro. […] Provate a fare questo facile esperimento, pensate all’immagine che scaturisce dalla definizione ‘misteri italiani’, e poi a quella di ‘crimini italiani’: dalla prima sarete in qualche modo sedotti, dalla seconda tenderete a sfuggire, significa che la prima è una trappola, un trompe-l'œil, la seconda la verità con la quale stiamo disimparando a fare i conti. C’è poi un’altra questione: chi assicura che la lente d’ingrandimento faccia vedere meglio di uno sguardo distante?”
Oltre che in Bernardi, che negli anni ha scritto su questo tema anche A sangue caldo - Criminalità, mass media e politica in Italia (DeriveApprodi) e un romanzo breve che si intitola Niente da capire (una critica alla spettacolarizzazione della nera e ai processi mediatici), ho trovato spunti di riflessione molto interessanti anche in Tu uccidi - Come ci raccontiamo il crimine di Paolacci e Ronco (edizioni effequ, 2023):
“Il noir vero, nelle sue diverse declinazioni - che sia cioè ‘alla francese’, ‘all’americana’ o ‘all’italiana’ - affonda le mani nella società che descrive, tocca la politica, la sociologia, la psicologia del crimine”. […] “I delitti di cronaca dovrebbero appartenere a un terzo tipo di narrazione - né ludica, come quella del giallo di intrattenimento, né letteraria, come quella della grande letteratura, del giallo sociale o del noir - per il semplice motivo che non sono delitti inventati”. […]
“E’ così che da decenni una certa televisione - e poi anche una certa produzione editoriale, fino ad alcuni attuali podcast - raccontano il crimine reale: cercando di interessare, di avvincere, perfino di far appassionare a vicende narrate in modo accattivante, e quindi usando come modello la collaudata letteratura o il cinema. Ovvero: confondendo i piani. […] Un esercito di persone non qualificate ma chiamate a esprimere le proprie opinioni, le proprie teorie, le proprie tesi investigative su un omicidio reale, come in un cineforum. […] Il principale dubbio da risolvere in questo genere di true crime è un semplice: a chi diamo la colpa?”
La riapertura delle indagini sull’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto a Garlasco nel 2007, potrebbe essere un banco di prova molto importante nell’ottica di un superamento di quel modo borioso e vivace di fare cronaca che trasforma una morte violenta in puro intrattenimento. Quel modo in cui la voce narrante è protagonista e i corpi stesi a terra un accessorio. L’attacco del pezzo firmato da Massimo Pisa, ieri su Repubblica, era per molti versi perfetto: “In questo ennesimo capitolo esistono solo rischi. Di innamorarsi di una tesi, di schierarsi per partito preso, di considerare questo sforzo investigativo come accanimento terapeutico. E di provocare ulteriore dolore, nei parenti delle vittime di ieri e nell’indagato di oggi”.
Per noi, come società, le domande dovrebbero essere più importanti delle risposte. Giocare agli investigatori è sempre crudele.