Ho iniziato a leggere Il giorno dell’ape (Einaudi) e credo che per la recensione completa dovrete aspettare il 2027 visto che Paul Murray ha voluto fare il fenomeno - 650 pagine scritte fitte, senza nemmeno un disegno - fregandosene della nostra soglia dell’attenzione. Una specie di insulto alle nostre intelligenze labili, tarate sui bignamini di Byung-Chul Han.
Sono appena agli inizi di questa saga familiare eppure ho già dato un senso al costo dell’intero biglietto: Cassandra Barnes, che in questa storia interpreta il ruolo della “figlia”, ha un’amica che si chiama Elaine e che fantastica di partecipare a un concorso di bellezza. Sono due ragazzine, loro, alle soglie della maturità e si sono conosciute durante una lezione di chimica perché Elaine ha versato dello iodio su una dermatite di Cass, quindi poi ha dovuto accompagnarla in infermeria.
“Cass trovava che Elaine fosse più bella di tutte le contendenti che aveva visto nelle foto online. Ma non era così facile. Ognuna delle ragazze che concorreva per diventare Miss Universo Irlanda, e poi Miss Universo dell’intero pianeta, aveva superato una qualche avversità. Una era profuga di una guerra in Africa. Un’altra aveva dovuto sottoporsi a un intervento chirurgico quando era ancora una bambina. Una concorrente magrissima era stata molto grassa un tempo. L’avversità doveva essere qualcosa di serio, tipo un disturbo dell’apprendimento, ma non troppo serio, tipo esser rimasta incatenata nella cantina di un pedofilo per una decina d’anni. L’eczema sarebbe stato perfetto come avversità; si chiesero se Cass potesse attaccarlo a Elaine, tenendo a contatto la pelle abbastanza a lungo. Ma sembrava di no. Elaine disse che il requisito dell’avversità era ingiusto. Se ci pensi è una specie di discriminazione o quasi, disse”.
Il mio primo commento è stato: tutto il mondo è paese. Evidentemente anche in Irlanda hanno questo problemino, che m’illudevo fosse solo italiano, con il drama - si legge draa-muh. In effetti da tempo mia madre mi esorta a pubblicare una storia triste, mi consiglia di andare a pescare un qualche trauma dalla mia infanzia - un’unghia incarnita, il disagio delle doppie punte, un vicino di casa che salutava sempre, quel sei meno meno in geografia, quella volta che dopo cinque anni mi tolsero l’apparecchio per i denti ma nessuno a scuola se ne accorse (se oggi prendo a morsi chiunque mi capiti a tiro non è fame ma lotta di classe). Perfino genitore 1, che scema non sarebbe, s’accorge che mi manca un certo je ne sais quoi per finire su tutti i giornali - non con le manette ai polsi ma con un post-it appiccicato sulla fronte, cioè in qualità d’intellettuale di punta di questo disastrato paese.
Non so di preciso quando sia successo ma elemento essenziale dell’avere successo è diventato ti racconto i miei cazzi più amari. Come spiega perfettamente Murray: una cosa seria ma non troppo seria. Perché se fosse davvero seria si rischierebbe l’effetto camomilla - che da confortevole, se lasciata in infusione per più di tre minuti, diventa ansiogena quanto un caffè. E in effetti le turbe delle celebrità contemporanee rispettano quasi sempre questa caratteristica: sono delle stupidaggini, malesseri autocertificati o del tutto immaginari, un granello di sabbia per un adulto che però continua a essere percepito come l’Himalaya dal suo bambino interiore.
Suscitano insomma una lieve empatia (poverino / cuoricino) ma non devono impensierire troppo il pubblico, cioè indurlo a domandarsi: oh mio dio, e cosa ci posso fare io, a parte lasciarti in bacheca un bacino?
Non so bene quando sia cominciata questa gara di sfighe ma quelli che di professione avrebbero dovuto dar voce alle sfighe degli altri hanno iniziato a raccontare solo i fatti loro e i romanzi, o gli articoli di giornale, sono diventati perlopiù dei diari segreti in cui non si fa più nemmeno finta di essersi inventati qualcosa, d’aver letto qualcosa, d’aver ascoltato qualcuno, d’aver unito dei puntini. Il problema collaterale è che le persone comuni hanno iniziato a farselo bastare, invece di arrabbiarsi. Invece di dire: ma se tu parli solo di te stesso, di me chi dovrebbe parlare? Il parrucchiere? Lo spazzino? Il meccanico?
Un tempo se un giornalista diventava la notizia, invece di darne una, era considerato un bel guaio. Da qualche anno, invece, se non hai affrontato nemmeno una sventura della quale mettere a parte i lettori, fai prima a cambiare mestiere - diventare un parrucchiere, uno spazzino, un meccanico, ché nel frattempo sono diventati quelli che rincorrono le ambulanze per assicurarsi che trasportino effettivamente qualcuno o che danno in anteprima social la notizia che il Papa, al Gemelli, non c’è (è che hanno sbagliato padiglione, ma come fai a biasimarli se la vita è diventata la più grande sceneggiatrice, visto che tutti quelli che dovrebbero scrivere un copione vogliono fare solo l’attore protagonista?).
Se ci pensi, dice Murray attraverso Elaine, è una discriminazione, il requisito dell’avversità è ingiusto. Ma i venditori di avversità sono protetti da una gabbia mentale invalicabile: a differenza di un pensiero, le avversità, infatti, non sono criticabili. Perché chi correrebbe mai il rischio di passare per un cinico? E poi, questi campioni di sfighe, vendono sempre il loro egocentrismo per altruistico: spero che, parlandone, anche voi troviate il coraggio di parlarne - qualcosa del genere.
Ma parlarne con chi se ho settantacinque follower, dieci euro sul conto e nemmeno un amico?