Qualche settimana fa ho letto “Il piccolo hotel dei miracoli” di Akio Shibata e Koto Takimori, pubblicato in Italia da Giunti. La lettura è stata molto deludente perché mi aspettavo un romanzo e così non è stato. Ma è difficile definire cosa sia stato. Forse si può parlare di un libro di fiabe per bambini, forse di una grande furbata (perché è incartato per essere acquistato da bambini un po’ troppo cresciuti per poter essere considerati dei bambini). Oppure sono io a essere troppo esigente ed è così che va la letteratura ai tempi di Instagram: frasi semplici, altrimenti il lettore di slide si sente sopraffatto, e qualche disegno qua e là per aiutare la comprensione del testo, qualora il precettore di Tony Effe fosse stato colto da rassegnazione.
Rispetto a questo libro, a distanza di giorni, il mio istinto continua a raccomandare diffidenza. Sostiene, nel prologo, il signor Shibata - direttore di un albergo giapponese che ha rischiato di chiudere i battenti in seguito all’esplosione di una bolla speculativa - che nel momento in cui tutto sembrava perduto abbia pensato: “la cosa più importante da fare è risollevare lo spirito dei dipendenti”. E poi: “Mi resi conto che la priorità non era avere la clientela più felice del Giappone, bensì il personale più felice del Giappone, era quello il primo passo da fare verso la rinascita”; “Il posto di lavoro non è un campo di battaglia né una sede d’esame”; “Considerare il personale e i clienti come una famiglia”; “Un’unica cosa che conta? E’ la gentilezza. La gentilezza di pensare ai propri colleghi, sostenerli, perdonarli, e la gentilezza di mettersi nei panni degli altri. Io penso che se manifestiamo questa gentilezza siamo promossi come esseri umani”. Esattamente quello che avrei pensato anche io. Ché sono completamente stupida, su queste cose.
Eppure quella dell’Associa Nagoya Terminal mi viene venduta come “un’incredibile storia vera”. Il signor Shibata di sicuro esiste. E il suo hotel si sarebbe guadagnato “l’appellativo di più ospitale del Giappone”, dopo essersi trovato sull’orlo del fallimento. Non vivessi in Italia potrei crederci sulla parola ma vivendo in Italia non posso escludere a priori che una leggenda orientale sia stata spacciata per una verità assoluta, senza che nessuno si sia premurato di verificarla. Nel mio piccolo ho trovato pochi riscontri (ma io sono molto esigente, e poi non so leggere il giapponese) perciò non ci giurerei, sul fatto che il signor Shibata sia un imprenditore così illuminato. Anche se vorrei.
“La vita e il lavoro sono in relazione. Chi vive in modo irresponsabile, avrà dei comportamenti irresponsabili anche sul lavoro, mentre chi vive seriamente saprà anche lavorare seriamente. Vale lo stesso anche per la gentilezza, sai? Se sei premurosa nei confronti di tua madre, allora di sicuro saprai rivolgerti con lo stesso riguardo anche a colleghi e clienti. E’ per quello che ti ho assunta. Il lavoro è un’estensione della vita, la vita è un’estensione del lavoro”. Esattamente quello che penso anche io, ma mi guardo bene dal dirlo a voce alta per non rischiare di passare per una sprovveduta. Perché non so laggiù, ma in Occidente basta un attimo e tutto questo volemose bene diventa: saresti così gentile da lavorare quindici ore al giorno dal lunedì alla domenica, senza mai fiatare, senza ferie, senza malattia e magari anche senza stipendio? Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, signor Shibata.
Infatti avevo deciso di riporre il libro ma qualche giorno fa leggo su Affari e Finanza di Repubblica un titolo che mi dà da pensare: “Boom di licenziamenti per procura: avvertono il datore di lavoro e sbrigano le pratiche di addio”. Catenaccio: “Il servizio nasce in Giappone dove il 17% delle persone che cambiano lavoro usa un agente proxy per dimettersi”. M’incuriosisco: “Licenziarsi come atto liberatorio? Non è così semplice come sembra. E così per evitare stress, rimpianti inutili, discussioni e anche fregature dai datori di lavoro, in Giappone si assiste a un insolito sviluppo dei servizi di licenziamento. Una sorta di exit strategy. Più esattamente è boom di taishoku daikou”.
Proseguendo, l’articolo spiega che il 40% dei dipendenti che hanno accettato di rispondere a un sondaggio lanciato dal gruppo di ricerca Mynavi (una società che si occupa di risorse umane) “ha affermato che il motivo principale per cui hanno utilizzato un servizio proxy era perché gli era stato impedito di andarsene”.
Scopro così che le aziende giapponesi “hanno sfruttato per molti anni la loro capacità di far sentire in colpa i dipendenti per aver deluso l'azienda o i colleghi. Ciò ha contribuito a una serie di problemi sul posto di lavoro, tra cui orari notoriamente lunghi e casi di karoshi, la tristemente nota morte per superlavoro”.
Insomma, signor Shibata, qui non ce la passiamo bene ma in Giappone, per certi versi, non va meglio. Anche se, leggo sempre su Repubblica, “la combinazione di ferie non reclamate, straordinari e legge giapponese sono dalla parte del dipendente”. Tanto che sarebbe cresciuto enormemente il potere contrattuale dei lavoratori e questo avrebbe costretto le aziende “a ripensare a come attrarre e trattenere il personale”.
Allora forse, mi dico, la storia dell’hotel più ospitale del Giappone, che si è salvato dal fallimento investendo sul benessere dei propri dipendenti e sulla qualità delle relazioni, è verosimile. Non è uno spottone occulto per attirare turisti da tutto il mondo. E’ scritta male - cioè è scritta, e disegnata, in modo che possa capirla perfino Tony Effe - ma è una grande storia.