Contro la società dell'angoscia
Fingo di recensire l'ultimo saggio di Byung-Chul Han ma in realtà parlo di Zygmunt Bauman
Ora che ci penso: tre su cinque, delle persone peggiori incrociate nel corso della mia vita, appartenevano alla corrente citazionista di Byung-Chul Han. Ma, poiché preferirei farmi tagliare una mano pur di non rimanere intrappolata in un pregiudizio, ho comunque letto il suo ultimo saggio che è uscito a fine gennaio per Einaudi e che s’intitola “Contro la società dell’angoscia”. Ho perseverato, a dirla tutta, visto che due anni fa avevo già letto “Infocrazia", archiviandolo alla voce soldi buttati nel cesso perché purtroppo ho scarsa sopportazione per il vittimismo e tutto il libro ruota attorno a un concetto: poveri noi, schiavi del “regime dell’informazione”, costretti da non so bene chi, a parte il nostro ego, a piacere ai nostri follower.
(Ehi tu!, ti vedo che canticchi: Cuoricini / Cuoricini).
Questa volta è andata molto meglio nel senso che a questo libercolo attribuisco un grande merito: il merito d’avermi spinta a rileggere Zygmunt Bauman. O ancora meglio a confrontare l’ultimo Han con un Bauman minore (pubblicato nel 2014 solo in eBook da Repubblica, in collaborazione con Laterza). Ho scelto proprio “Il demone della paura” perché in qualche modo assomiglia a quell’altro - “Contro la società dell’angoscia” - sia per il tema trattato che per la metratura (un centinaio di pagine). Ma pure a non voler essere crudeli (e io non voglio essere crudele, è il regime forfettario che me lo impone) il paragone è impietoso.
Nonostante uno dei due saggi sia vecchio di dieci anni (figurarsi che ci sono dentro Al-Qaida e Bin Laden) risulta ancora molto attuale e molto meno banale del più giovane Han. Scrive ad esempio Bauman, in questa sua indagine sul senso di paura che ha invaso la società contemporanea: “Siamo tutti presi a spiare ‘i sette segnali del cancro’ o ‘i cinque sintomi della depressione’, a esorcizzare lo spettro della pressione alta o il livello del colesterolo, dello stress o dell’obesità. In altre parole, cerchiamo dei bersagli di riserva sui quali scaricare l’eccesso di paura esistenziale che non riesce a sfogarsi in modo naturale […] Quelli di noi che se lo possono permettere si difendono da tutti i pericoli, visibili e invisibili, attuali o annunciati, noti o ancora poco familiari, diffusi ma onnipresenti, chiudendosi in casa, riempendo le vie di accesso alle proprie abitazioni di telecamere, assumendo guardie armate, guidando veicoli blindati (come i famigerati SUV), indossando vestiti corazzati (come le scarpe con la suola rinforzata) oppure iscrivendosi a corsi di arti marziali. […] Ogni serratura in più alla nostra porta d’ingresso […] ci fa apparire il mondo più infido e terribile, e ci spinge a ulteriori azioni difensive, rafforzando ancora di più, ahimè, la capacità della paura di autopropagarsi. Insicurezza e paura possono essere (e lo sono) molto redditizie da un punto di vista commerciale”.
Diciamo, per attirarci le simpatie dei tizi di Einaudi e per spiegare a voi quale sia la caratura intellettuale del coreano, che se Bauman lo avesse scritto Han, tutta quella pappardella iniziale sarebbe da depennare. E si salverebbe soltanto l’ultima frase: “Insicurezza e paura possono essere (e lo sono) molto redditizie da un punto di vista commerciale”. Perfetta per essere riproposta come una peperonata, a intervalli regolari sui social network, dagli attivisti digitali schiavi del regime (alimentare?).
C’è poi un capitolo - “Lo Stato della paura” - in cui Bauman smonta l’opinione diffusa secondo cui il nucleo centrale dello stato sociale sia rappresentato dalla redistribuzione della ricchezza. Sbagliato: è invece “la protezione (l’assicurazione collettiva contro le disgrazie individuali)”.
Troppo poco confortevole per i lettori di Han, che infatti scrive: “L’angoscia si aggira come uno spettro” (originalissimo); “vivere si trasforma in sopravvivere” (il mio parrucchiere lo diceva meglio); “Angoscia e risentimento spingono le persone tra le braccia delle destre populiste e alimentano l’odio. La solidarietà, l’amicizia e l’empatia subiscono un’erosione. L’espandersi dell’angoscia e il crescere del risentimento innescano una regressione della società nel suo insieme e, in ultima analisi, mettono in pericolo la democrazia” (ora diche un poesie).
In Han c’è sempre questa visione complottista e apocalittica, de sinistra, che giustifica il lettore e lo deresponsabilizza rispetto a quelle che sono le sue azioni nel mondo. Mentre in Bauman, questo senso di responsabilità - questo fastidio? - lo si avverte. Parlando di paura non può fare a meno, ad esempio, di puntare la sua lente anche sul mondo del lavoro che per antonomasia è diventato uno dei luoghi meno sicuri e meno protetti. Nel farlo descrive un’attitudine sociale, invece di identificare un colpevole esterno (il capitalismo, il liberismo, gli hater, tuo padre): “Non avere un posto di lavoro viene sempre più percepito come uno stato di ‘esubero’ (essere scartati, etichettati con il marchio di superflui, inutili, non impiegabili e condannati a rimanere ‘economicamente inattivi’) invece che come una condizione di «disoccupazione» (termine che indica un allontanamento dalla norma, che è quella dell’'essere occupato, un disturbo temporaneo che può e deve essere curato). […] Soltanto una linea sottile separa oggi i disoccupati, in modo particolare i disoccupati di lungo periodo, dal buco nero della ‘sottoclasse’: uomini e donne che non rientrano in nessuna suddivisione sociale legittima, individui lasciati fuori dalle classi e che non possiedono nessuna delle funzioni riconosciute, approvate, utili e indispensabili svolte dai membri ‘normali’ della società; persone il cui apporto alla vita della società è nullo, delle quali la società potrebbe fare a meno e dalle quali guadagnerebbe sbarazzandosene. […] Proprio come le persone senza lavoro, i criminali (cioè quelli messi in prigione, incriminati e in attesa di giudizio, sotto il controllo della polizia, o semplicemente schedati dalla polizia) non sono più visti come esclusi momentaneamente dalla vita sociale normale e destinati a essere ‘ri-educati’, ‘riabilitati’ e ‘restituiti alla comunità’ alla prima occasione, ma come individui emarginati in via permanente”.
Infine, dovendo identificare uno spazio fisico pubblico nel quale il sentimento della paura ha preso residenza, Bauman individua gli agglomerati urbani, con una certa esattezza e con un certo anticipo (ricordo che il suo saggio è del 2014): “Le città sono oggi i luoghi in cui le insicurezze concepite e incubate nella società si manifestano in forma estremamente condensata e perciò particolarmente tangibile. Luoghi in cui l’elevata densità dell’interazione umana ha coinciso e coincide con la tendenza della paura, figlia dell’insicurezza, a cercare e trovare valvole di sfogo e oggetti su cui scaricarsi, anche se questa tendenza non è stata sempre una caratteristica esclusiva di questi luoghi. […] Le minacce autentiche e presunte alla persona e alle proprietà dell’individuo stanno rapidamente diventando i principali fattori da tenere in conto al momento di esaminare pregi e difetti del luogo dove vivere. Ormai sono la priorità numero uno nelle politiche di marketing del mercato immobiliare”.
Ricapitolando, in Bauman, il senso di angoscia permanente nel quale viviamo è anticipatorio, cioè frutto, in massima parte, del tentativo di ostacolare il verificarsi di uno stato d’angoscia; il mondo del lavoro è il più grande produttore di angoscia in quanto esserne estromessi corrisponde a una condanna a morte, più che di tipo economico di tipo sociale; sulle città, intese come luoghi in cui l’interazione umana è più convulsa, scarichiamo la maggior parte della nostra angoscia individuale in eccesso, assecondando le nostre percezioni anche quando queste sono in contrasto con dati e fatti reali.
La società dell’angoscia di Han è invece un mondo in cui “le persone non si fidano più di esprimere liberamente la loro opinione, e questo avviene proprio per il timore di essere repressi. Anche il cosiddetto hate speech o le shit storm, che evidentemente alimentano questo stato d’animo, sono un impedimento a una libera manifestazione dei propri pensieri. Oggi proviamo persino angoscia per l’attività di pensare. Il coraggio di pensare sembra essersi smarrito, sembra averci abbandonato”.
Ma chi, ma dove, ma cosa, ma di che. Il ragionamento è talmente scarso che risulta difficile perfino confutarlo (nel senso che dovresti proprio riscrivere daccapo il libro). La paura di un odiatore senza onomastico cos’è? Un’invenzione, una paranoia, un esercizio di stile, una zona di conforto, un post che raccoglierà molti like, uno scherzo, un gioco delle parti, una frustrazione. Ma come si fa a considerarla seriamente la radice del male delle società occidentali?
Spererei che l’angoscia di produrre altri pensierini di questo spessore s’impossessi di Byung-Chul Han non fosse che egli scrive: "La speranza assoluta è una speranza senza speranza o la speranza di chi è senza speranza”. Amico mio allora sappi che non ci spero.