A destra il wrestling, a sinistra "la politica delle figurine"
Intervista a Jacopo Di Miceli di "Osservatorio sul complottismo"
Jacopo Di Miceli è laureato in Storia delle Dottrine Politiche ed è autore di due saggi: “L’ideologia della paura” e “Manuale per fabbricare una teoria del complotto”. E’ curatore del progetto “Osservatorio sul Complottismo” (su Instagram: osservatorio_complottismo).
Il punto di partenza della nostra chiacchierata è che l’estremismo contemporaneo di destra, e più nel dettaglio il trumpismo, ha incorporato all’interno del suo linguaggio politico dei codici tipici del wrestling. Non di un programma tv qualsiasi ma specificamente quelli del wrestling.
Ad esempio ci sono gli insulti all’avversario e c’è, soprattutto, l’impersonificazione del personaggio cattivo che nel gergo del combattimento viene definito “Heel”. L’Heel è appunto il lottatore che va sul ring e affronta i “buoni” (i cosiddetti babyface) riscuotendo quasi sempre il maggiore apprezzamento da parte del pubblico perché è capace più degli altri di suscitare emozioni estreme - amore o odio contribuiscono allo stesso share - portando in scena la performance più esagerata. Questo schema classico del wrestling è stato traslato in politica con effetti paradossali e tragici che sono sotto gli occhi di tutti: anche in politica il personaggio che ha più successo è ormai regolarmente il più cattivo “perché il cattivo è percepito come il più autentico nella sua teatralità”. Questi due aspetti - autenticità e finzione - sembrerebbero in netta contraddizione tra loro, ma come spiega molto bene Di Miceli (anche nell’ultimo numero della sua newsletter) non lo sono affatto perché a tenerli insieme c’è il concetto di kayfabe, utilissimo anche per decifrare lo scontro tra Trump e Zelensky di cui tanto si è discusso nelle ultime ore.
Potresti spiegare in sintesi di cosa si tratta?
Kayfabe è una parola chiave del wrestling: indica l’atto di illudersi che lo spettacolo al quale si assiste sia reale. In realtà il wrestling non è uno sport competitivo ma è solo uno show di puro intrattenimento, per quanto sul ring si sfidino degli atleti che devono affrontare determinati allenamenti se non vogliono rischiare di farsi davvero male. Tuttavia tutto è scritto e stabilito a tavolino, c’è un copione al quale attenersi. Ma il punto è che gli spettatori, quando assistono a un incontro di wrestling, mentono a se stessi: pur sapendo che è tutto finto, lo vivono come fosse reale. Quindi c’è una doppia finzione all’opera: da una parte i wrestler inscenano un personaggio, che cercano di far vivere anche nella loro vita quotidiana, del quale quindi non svestono mai gli abiti; dall’altra parte gli spettatori rispettano una specie di tacito accordo in base al quale guardano lo spettacolo illudendosi volontariamente che tutto quello che vedono sia improvvisato e che quella che viene portata in scena sia una lotta vera e propria. La kayfabe, che può essere definita come una sospensione dell’incredulità, si applica alla politica nel momento in cui gli elettori sono così spaesati dal contesto generale che l’illusione li attrae più della realtà, soprattuto se è divertente ed esagerata come quella trumpiana. Sanno che è tutto finto, ma accettano di credere che sia tutto vero.
Quindi Trump che maltratta Zelensky risulta molto più avvincente per il pubblico, rispetto a un classico incontro formale nello Studio Ovale, appunto perché, come nel wrestling, "l’Heel riesce a far impazzire quelli che sono considerati i buoni o che si autopercepiscono come buoni” (in questo caso il presidente ucraino, in altri casi i democratici o l’establishment repubblicano, in altri ancora una più generica “sinistra”). Il commento più istintivo e frequente, tra coloro che non aderiscono alla kayfabe e assistono allo show da estranei, è: questi sono completamente folli. Questo giudizio però sembra molto riduttivo e poco risolutivo. Nel tuo primo libro c’è un passaggio molto illuminante su relativismo e patologizzazione della paranoia…
Sia quando si pensa ai complottisti che agli elettori dei partiti populisti (che al loro interno si rifanno tutti, ormai, ad alcune teorie del complotto) il primo impulso è di etichettarli come dei pazzi, gente che ha perso il senno.
In realtà il complottismo affascina anche persone estremamente razionali. In effetti le cause sono molteplici ma una si può sicuramente ricercare dalle parti del “relativismo”. Infatti con la fine della Guerra Fredda, moltissimi filosofi, tra i quali mi viene in mente Gianni Vattimo, hanno iniziato a sostenere che la morte delle ideologie avrebbe liberato l’uomo dalla dittatura delle ideologie. Il relativismo intellettuale avrebbe accresciuto il pluralismo delle opinioni e questo avrebbe arricchito la società nel suo insieme. Invece questo ha provocato una frantumazione della società in tantissimi punti di vista ai quali è stato riconosciuto indistintamente un identico livello di credibilità e una stessa legittimità. Così adesso, trent’anni dopo la caduta del Muro, con un grado di scolarizzazione che non è mai stato così alto nel mondo, ci ritroviamo alle prese con un livello di adesione alla realtà che non è mai stato così basso. Il problema è che con una simile atomizzazione delle opinioni non si riesce più a concordare su cosa sia effettivamente reale e cosa no. Quindi la tentazione più forte è dire che gli altri sono dei pazzi. Anche se questo giudizio non tiene conto di tantissime cause - economiche, sociali, storiche - che spiegano molto meglio, rispetto alla patologizzazione, il perché siamo arrivati a questo punto.
Come se ne esce?
Io sono tendenzialmente pessimista però ci sono sicuramente delle strade che potrebbero almeno portarci a una riappacificazione collettiva. Il fatto che la politica abbia fallito - motivo per cui le persone cercano un’illusione di successo - deve portarci a una reinvenzione delle politiche da mettere in campo. In ambito economico, ad esempio, la sinistra dovrebbe smetterla di delegare agli “esperti”, ma dovrebbe ricominciare a politicizzare le proprie ricette economiche. La seconda strada è quella del giornalismo: se il giornalismo è diventato ormai un lavoro per pochi eletti, che si devono barcamenare con bassi stipendi, oppure se le principali testate sono ormai dei monopoli, è chiaro che la professione giornalistica perda la sua funzione sociale e che venga messa in dubbio la sua affidabilità. E’ lampante che non esista più un rapporto di fiducia con i lettori. Se penso all’Italia mi viene in mente che nel periodo Covid le persone inseguivano le ambulanze perché pensavano che fossero vuote, perché non c’era un giornalismo locale che raccontasse gli ospedali pieni, o se c’era non riusciva comunque a raggiungere un numero sufficiente di destinatari. E’ solo un esempio ma l’assenza di un giornalismo locale spesso porta le persone a concentrarsi su problemi “nazionali” che magari neanche esistono - ma non essendo direttamente verificabili diventano concreti.
Mi ha colpito, negativamente, che sui quotidiani italiani Alice Weidel (la leader di Alternative für Deutschland, che alle ultime elezioni in Germania ha ottenuto oltre 20% dei consensi), sia stata descritta come “la leader dell'ultradestra che non ti aspetti” in quanto “lesbica, residente in Svizzera, sposata con una straniera originaria dello Sri Lanka” e pertanto “una nazionalista che nel privato si contraddice”. Il tono di questi articoli sembrava quello di un marito tradito, geloso e gonfio di livore, che assolutamente non accetta che sua moglie abbia preferito andare a vivere con un altro e così grida al rivale “ti tradirà, come ha tradito me!”. Le vedove di Weidel non hanno però spiegato perché, per il suo elettorato, questi dati risultino del tutto irrilevanti…
Credo che il problema principale sia quella che potrei definire “la politica delle figurine” della sinistra. Alice Weidel sarebbe perfetta come leader della sinistra perché è una donna, ha avuto una carriera di successo, parla inglese in modo fluente, è sposata con una cingalese, vive in Svizzera; insomma: è una cosmopolita, che incarna pienamente gli ideali della globalizzazione multiculturale e della valorizzazione delle minoranze. Tuttavia è la leader dell’estrema destra tedesca, anzi di più: dei post nazisti e dei neo nazisti tedeschi.
Ma questa “politica delle figurine” si è rivelata fallimentare già in tanti paesi e già da molti anni. Basti pensare che il governo più razzista degli ultimi decenni in Inghilterra, che ha avviato una politica di deportazione dei richiedenti asilo in Rwanda, è stato quello di Rishi Sunak, il primo capo di governo con radici familiari indiane nella storia del Regno Unito. O ancora: molti si sono stupiti quando è emerso che i Latinos hanno votato in massa per Trump; allo stesso modo, moltissimi pakistani di prima generazione avevano votato a favore della Brexit nel 2016. Ma questi dati possono essere considerati sorprendenti solo se invece di analizzare le cause si gioca a riempire un album di figurine. Perché in realtà i Latinos sono in larghissima parte esuli cubani, fortemente anticomunisti quindi, con il mito del caudillo cioè del generale vittorioso, dell’uomo forte e machista, che riconoscono in Trump. Oppure: in Germania tra gli esponenti di Afd ci sono alcune donne di origine turca che considerano i nuovi immigrati incapaci di integrarsi, a differenza loro che hanno affrontato tutti i sacrifici necessari per diventare veramente tedesche.
Sembra insomma che per il campo progressista tutto ciò che non è etichettatile sia del tutto privo di senso, ma una società vive anche di contraddizioni, che possono anche essere molto profonde. Compito della politica dovrebbe essere quello di comprendere le cause di queste contraddizioni per poterle risolvere, non di moralizzarle. Bisognerebbe quindi, prima di tutto, fare pace col fatto che per gli elettori di destra gli elementi per così dire “estetici”, cioè formali, in fondo superficiali, non siano determinanti: ciò che conta è l’ideologia che il leader rappresenta e non la sua biografia. Il secondo passo dovrebbe essere quello di ammettere che se la sinistra può giocarsi solo la carta delle biografie è perché si è drammaticamente a corto di idee.
In conclusione c’è un elemento singolare che ultimamente sta emergendo con una certa forza: il mito dell’Impero romano. Andrea Stroppa, il referente italiano di Elon Musk, in un primo momento aveva commentato il suo braccio teso, esibito alla cerimonia d’insediamento del presidente Usa, con queste parole: “L'Impero Romano è tornato, a cominciare dal saluto romano”. Nei corridoi della conferenza CPAC, che si è tenuta pochi giorni fa, è circolato un manifesto a favore di un terzo mandato per Trump in cui il presidente è ritratto come un imperatore romano. Mentre la sinistra guarda con terrore agli inizi del Novecento la nuova destra mondiale è in realtà proiettata molto più indietro nel tempo e punta al cesarismo?
E’ un po’ strano vedere come queste élite americane si siano appassionate all’improvviso all’Impero Romano. Io ho notato una grandissima interazione tra Musk e alcuni profili Twitter che, utilizzando immagini realizzate con l’intelligenza artificiale, mostrano le antiche città di epoca romana e le mitizzano in contrapposizione a un presente costruito su architetture orribili.
Quella dell’Impero romano è una metafora effettivamente molto in voga. Quando nel 2020 Trump sosteneva che le elezioni fossero rubate c’erano i complottasti di QAnon che lo invitavano a “passare il Rubicone” come Giulio Cesare che con quell’atto si era ribellato al Senato inaugurando la guerra civile. In sostanza era come dire che in quel frangente Trump avrebbe dovuto utilizzare la forza. Tanto che poi si è iniziato a parlare di “Cesare Rosso”, per riferirsi all’attuale presidente Usa. Più in generale credo che i richiami all’Impero romano siano da leggere di sicuro in chiave nazionalista e di suprematismo bianco ma anche in chiave letterale, cioè quel tipo di gestione del governo - imperiale appunto - affascina molto le attuali classi dirigenti.
Contro la società dell'angoscia
Ora che ci penso: tre su cinque, delle persone peggiori incrociate nel corso della mia vita, appartenevano alla corrente citazionista di Byung-Chul Han. Ma, poiché preferirei farmi tagliare una mano pur di non rimanere intrappolata in un pregiudizio, ho comunque letto il suo ultimo saggio che è uscito a fine gennaio per Einaudi e che s’intitola “Contro …