Il femminicidio prima del femminicidio
Si può uccidere una persona perché vuole interrompere un rapporto?
Il 19 luglio 2002, Ruggero Juncker uccide con ventidue coltellate la sua fidanzata, Alenya Bortolotto. (Jucker è stato condannato in primo grado a 30 anni di carcere. In appello, la pena è stata ridotta a 16 anni. Grazie all’indulto ha avuto uno sconto di altri 3 anni. Nel 2013 è tornato libero, dopo aver scontato dieci anni di detenzione).
Il 9 dicembre del 2002 Maria Rosaria Sessa, giornalista televisiva, viene uccisa con cinque coltellate da Corrado Bafaro, suo ex fidanzato, che subito dopo si suicida.
Di queste due storie parla Luigi Bernardi nel primo capitolo, intitolato “Coppie a perdere”, del saggio “Il male stanco” (edizioni Zona), pubblicato nel 2003.
Si tratta di due femminicidi che risalgono a un periodo in cui ancora non si parlava di femminicidio. Ma Bernardi aveva già messo a fuoco alcuni elementi che diventeranno tipici e che occuperanno tutte le nostre discussioni solo molti anni più tardi.
Il ricorso al termine raptus come esempio di cattiva cronaca nera; il movente come fondamento d’indagine ormai superato; la percezione che il fenomeno “uomini che uccidono le donne” sia molto più esteso di quanto i giornali raccontino; l’incapacità, e assieme l’urgenza, di trovare una risposta poco banale alla domanda: perché lo fanno?; la competizione come antitesi del conflitto e come istanza di dominio; la solidarietà tra esseri umani ridotta a una sola forma: quella monetizzabile dell’elemosina; la stupida credenza secondo cui ad attrarci, della cronaca nera, sia il fatto che “potrebbe capitare anche a me”; la dimensione sociale, “in un certo senso civile” e quindi non individuale, dei disturbi alla base di questi omicidi.
Potrei definire tutto questo incredibilmente profetico ma credo sia più corretto definirlo intelligente, e inascoltato. Puoi rileggerlo oggi, ventidue anni dopo, e non trovarlo invecchiato. Ne pubblico di seguito alcuni stralci che in questi giorni risuonano più forte.
“Se fosse un film, alla fine sapremmo perché Ruggero Jucker e Corrado Bafaro si apprestano a pugnalare con gusto disperato Alenja Bortolotto e Maria Rosa Sessa. Lo scrittore, lo sceneggiatore, il regista troverebbero un modo per mandarci a casa con una spiegazione convincente, rassicurante. Chissà, magari ricorrerebbero a un trauma infantile, con quelli non si corre il rischio di sbagliare, da sempre sono chiamati a sorreggere le storie più bislacche, funzionano, pare con piena soddisfazione dello spettatore. Qualcuno ha detto che la realtà è la più efficace rappresentazione di se stessa, è di sicuro così. E siccome la realtà non ha spettatori da accontentare, una spiegazione ai gesti di Jucker e Bafaro non la troveremo mai. Ed è giusto, da sempre sono meglio le domande delle risposte, meglio ancora le domande che una risposta non la conoscono, tengono in tensione, non impigriscono i pensieri. […]
Non c’è mistero da sciogliere, niente che non sia chiaro, i giornali annaspano. […]
‘S’indaga ancora sul movente, mentre prende corpo, ora dopo ora, l’ipotesi del raptus’, questa è la tipica frase da articolo di cattiva cronaca nera, una frase che in sé non vuol dire niente, ma è lo stesso capace di restituire una sottile angoscia. Si sta parlando di un delitto del quale non rimane nulla da scoprire: si conosce il colpevole, si conosce la vittima, si conoscono le circostanze dell’omicidio, manca solo il movente del gesto. Ma siamo sicuri che all’alba del terzo millennio abbia ancora senso parlare di movente?
I bravi investigatori sembrano ormai disponibili a considerare il movente una circostanza accessoria, un qualcosa del quale si può fare anche a meno: in epoca di pensiero unico, le cose hanno perduto la loro dialettica interna, non nascono, non si sviluppano, ci sono e basta. Il problema è un altro: se ci sono, qualcosa vorrà pur dire, ed è da qui che bisogna ripartire per parlare correttamente di crimini oggi. Il movente rimane un caposaldo dell’omicidio solo per gli scrittori di gialli, i giornalisti di nera e, sicuro, gli avvocati difensori che su quell’assenza costruiscono le loro più fortunate, anche se spesso vuote, arringhe.
Abbiamo tutti quanti bisogno di un movente, ne abbiamo bisogno per far tornare i conti, per pacificarci, per zittire le dissonanze fastidiose. Se Corrado Bafaro ha avuto una ragione specifica, sua, misurabile, documentabile, per uccidere Maria Rosaria Sessa, allora la storia di quell’omicidio riguarda soltanto loro due, noi la possiamo archiviare, come un film dopo che lo abbiamo visto, un libro alla fine della lettura. Lo stesso vale per Ruggero Jucker e Alenja Bortolotto. Ma se le ragioni del delitto sono vaghe, paiono avvolte da motivazioni indefinite, risultano incomprensibili, ecco invece che la storia di quegli omicidi riguarda tutti quanti noi, perché suggerisce disturbi che non sono soltanto individuali, ma in un certo senso civili, nostri non solo loro. E non nel significato in cui lo riducono certi faciloni, secondo i quali le notizie di cronaca nera ci avvincono, ci danno i brividi, perché ci fanno pensare che potrebbe capitare anche a noi. Questo è il discorso, di forte egoismo tra l’altro, di chi sente la necessità di spettacolarizzare ogni cosa, di vederla attraverso la deformazione mediatica, di rileggerla in chiave romanzata. I delitti, non le notizie di cronaca nera, ci fanno paura perché sono una rottura traumatica dell’esistente. Tanto più i delitti ci appaiono inspiegabili, tanto più ci appare inspiegabile l’esistente. Questa è la natura vera del problema, altro che un paio di urletti di spavento e un mistero da quattro soldi da risolvere.
Bisognerebbe allora parlare di tutti questi uomini che uccidono le donne. I giornali dicono che sono tanti, i miei archivi suggeriscono che sono ancora di più. L’interrogativo è: perché lo fanno? Lasciamo da parte le spiegazioni facili, da corsivo di rotocalco, quelle che ci ripetono che il maschio ha più paura di essere lasciato della femmina, oppure che il maschio è cambiato meno del mondo in cui vive. Si tratta di evidenze che non spiegano, come dire che in estate fa caldo, o che a Natale i negozi sono tutti pieni. Corrado Bafaro ha ucciso Maria Rosaria Sessa perché lei non voleva più stare con lui. Ruggero Jucker ha ucciso Alenja Bortolotto perché lui non voleva più stare con lei. Si può uccidere una persona perché vuole interrompere un rapporto? La prima risposta che viene in mente è no, non si può. Ma è una risposta sbagliata. Se Corrado Bafaro ha ucciso Maria Rosaria Sessa perché lei non voleva più stare con lui, allora interrompere un rapporto in contrasto con il partner che vorrebbe proseguirlo è diventata una condizione sufficiente per l’omicidio, non c’è bisogno d’altro, basta quello. E si può uccidere una persona per chiudere un rapporto? Anche qui, la prima risposta che viene in mente è no, non si può. Ma anche questa risposta è sbagliata. Se Ruggero Jucker ha ucciso Alenja Bortolotto perché non voleva più stare con lei, allora il desiderio di interrompere un rapporto è diventato condizione sufficiente per l’omicidio, anche qui non c’è bisogno d’altro. La domanda è allora un’altra: che mondo è un mondo in cui la volontà di proseguire un rapporto è una condizione sufficiente per l’omicidio, così come lo è il desiderio di interromperlo? La risposta non è difficile: è un mondo impazzito, o almeno un mondo in cui l’impazzimento ha determinato nuove regole, le sue. […]
Corrado Bafaro e Ruggero Jucker hanno ucciso per colmare uno scarto, annullare delle differenze. Hanno provato a resettare le distanze, come si fa con certe macchine. Sono entrambi figli del pensiero unico che nega la discussione, e di conseguenza i conflitti, accettando soltanto la competizione. I conflitti facevano crescere, sviluppavano la personalità in un costante rapporto dialettico con l’altro. La competizione accetta soltanto la vittoria, condanna la sconfitta, l’unica solidarietà che conosce è quella monetizzatile sotto forma di elemosina. Non è più questione di incapacità di intendere e di volere del singolo individuo - quello è un giudizio che spetta alla psichiatria forense e sul quale non mi voglio addentrare - è questione di incapacità di intendere e di volere della stessa filosofia che detta i comportamenti alla nostra quotidianità. Un pensiero che non accetta il contraddittorio è un pensiero impazzito. […]
Cosa c’entra il pensiero unico con gli omicidi? […]
Il pensiero unico, pensiero dominante nel senso che si propone di dominare anche su se stesso, sulla propria attività, non potendo rimuovere l’antitesi avvia un processo di soppressione del soggetto che la produce: “Voglio calzare scarpe con quattordici centimetri di tacco, lo farò anche a costo di trasformare i miei stessi piedi”. “Ti amo, non potrei vivere senza di te, se mi lasci ti uccido”. Il pensiero unico, insomma, pur di avere ragione - di perpetuare il proprio dominio, che di questo si tratta -, s’incanala verso una via breve, arriva a giustificare un atto di forza dalle conseguenze spesso tragiche, a volte grottesche, come quando per risolvere il problema degli incendi boschivi l’uomo più potente della terra, il presidente degli Stati Uniti d’America, non sa proporre altro che la deforestazione di vaste aree del paese. Non c’è molta differenza tra rifarsi i piedi per indossare un certo modello di scarpe e segare un albero per evitare che possa un giorno bruciare. Così come non c’è molta differenza tra l’uomo politico che affida il suo messaggio alla diffusione dei media senza mai affrontare direttamente i propri avversari, e l’uomo che uccide la donna che lo vuole lasciare. In tutti i casi si tratta di atti di forza imposti da un pensiero che persegue unicamente l’istanza del dominio. Siamo alle prese con soggetti che si pongono nell’ottica di risolvere i problemi estirpandoli alla radice, nel momento in cui diventano tali. […]
Il problema non è se il maschio sopporta o meno di essere lasciato dalla femmina, il problema è che va imponendosi un modello di maschio che non sopporta di essere lasciato dalla femmina.”
La cronaca nera
A fine dicembre ho pubblicato cinque canzoni, scritte da me e realizzate con l’intelligenza artificiale. Mi ero detta: i cantanti fanno i conduttori televisivi, i conduttori televisivi fanno le interviste, i social media manager fanno i giornalisti, i giornalisti fanno gli influencer, gli influencer fanno il sindaco di Milano.