Paparazzi
Hanno ammazzato il gossip, il gossip è vivo. Con l'avvento dei social network un servizio giornalistico, più di qualsiasi altro, è caduto in declino: quello operato dai paparazzi. Il nome è intraducibile in altre lingue, é italiano in tutto il mondo per colpa di Federico Fellini ed Ennio Flaiano, cioè del loro Coriolano Paparazzo, il fotografo della Dolce Vita. Nel 2008 (diciassette anni fa, percepiti: due secoli) Lady Gaga lo utilizza per titolare uno degli estratti dal suo primo album che si chiama The Fame (non a caso: La Fama). Nel video che lo accompagna, sul finire, si costruisce una similitudine tra foto segnaletiche e scandalistiche come rappresentassero, per un verso, un’identica condanna e come implicassero entrambe, per altro verso, il compimento di un reato.
Il brano, spiega Gaga in un'intervista dell'epoca, ha diversi livelli di lettura ma di sicuro parla anche di un certo amore per i flash ovvero "di come corteggi i paparazzi per farli innamorare di me. E parla, se vuoi, della prostituzione dei media" o ancora meglio dei suoi surrogati che si fanno beffe di sé stessi, ovvero fanno la figura degli idioti guadagnandosi da vivere inseguendo le celebrità. La canzone solleva infine una questione: fama e amore, puoi averli tutti e due in contemporanea oppure devi sceglierne per forza uno? (“The song is about a few different things – it's about my struggles, do I want fame or do I want love? It's also about wooing the paparazzi to fall in love with me. It's about the media whoring, if you will, watching ersatzes make fools of themselves to their station. It's a love song for the cameras, but it's also a love song about fame or love – can you have both, or can you only have one?”).
Il dilemma lo scioglie negli anni immediatamente successivi la nascita del personal branding (ma certo, prima, ci sono stati Diana Spencer e il ponte de l'Alma, Vallettopoli e i fotoricatti): puoi averli entrambi, ma solo a patto che diventi il Papa(papa)razzo di te stesso. Ti stai alle calcagna, ti insegui, non ti lasci scampo, ti fotografi, ti fai un agguato, ti rilasci un'intervista, ti mostri sfatto e rifatto, molesti te stesso e la tua famiglia. In prima persona, senza più la mediazione di un surrogato del giornalismo, di una banda di estranei armati solo di una videocamera in un tempo in cui può mancare il pane a tavola ma non uno smartphone per ogni testa. Gli influencer vendono ai loro follower questo mascheramento come fosse una novità, della quale ci convinciamo perché nel frattempo "post-verità" è diventata parola dell'anno degli Oxford Dictionaries (è il 2016): non è vero ciò che è vero ma è vero solo ciò che vedo.
E’ così che il giornalismo tradizionale lentamente muore, perché inizia a inseguire i tic dei social; mentre i paparazzi muoiono perché inseguiti, e superati, dai vip sui social. La conclusione di questo sillogismo è che il gossip autoprodotto è diventato il fulcro del giornalismo tradizionale.
Un bel guaio. Del quale nessuno si preoccupa finché non finisce la luna di miele più lunga della storia (i Ferragnez e sei anni di sole feste, trasmesse in diretta acca ventiquattro, interrotte appena da qualche pianto - comunque motivazionale). A quel punto il costrutto originario (è tutto vero e non artefatto, a differenza di quando a decidere cosa e quanto raccontare del nostro privato erano i paparazzi) crolla. Ma ciò nonostante non accenna minimamente a diminuire la fame del pubblico. Come se le scorpacciate degli ultimi anni gli avessero allargato enormemente lo stomaco. È in questo punto che si registra la grande rivincita di Coriolano Paparazzo. Perché, mancando l'amore - la storia patinata, da antologia - la scelta è diventata obbligata: meglio la fama, la notizia, un pettegolezzo, un pedinamento, un bagliore.
Ma poiché non si può fare il bagno per due volte in uno stesso fiume (questi non sono gli anni Sessanta, non è nemmeno il 2008, e ciò che è cambiato nel frattempo è definitivo) i rapporti di potere oggi risultano invertiti. La disintermediazione - quella grandissima balla - si è spenta ma continuo a essere io, personaggio pubblico, a dirti quando, come e perché puoi accendere la tua videocamera su di me. Io decido con chi parlare e quali domande mi possono essere rivolte, decido io a chi concedere un’esclusiva e quando è arrivato il momento di far entrare il resto del mondo in casa mia, o direttamente nel mio letto. Decido io, infine, i temi da trattare e il contesto nel quale inserirli, cosa importa e cosa no, chi trascinare dentro e chi tenere fuori. Tu al massimo puoi reggermi il microfono, il moccolo oppure il gioco.
Forse bisognerebbe velocemente capire quanta scuola abbia fatto un racconto di costume - la cronaca rosa - di bassissimo livello. Ostacolare il fatto che venga spacciato per una vetta investigativa. Pretendere il rispetto di una qualche deontologia. Domandarsi perché la gente paghi così volentieri per avere notizie prive di interesse pubblico - che dovrebbe significare: ciò che ti dico incide anche sulla tua carne viva, sulla tua quotidianità, oppure ha un peso, o è valido, per la società nella quale vivi. Il problema non è tanto Fabrizio Corona in sé quanto Fabrizio Corona in te.