Quando Giorgia Meloni dice “Non so se questa è la vostra Europa ma di certo non è la mia”, riferendosi a un brano del Manifesto di Ventotene, secondo me fa qualcosa di inedito. Si schiera in maniera molto decisa e per niente ambigua contro un pilastro dell’antifascismo. Riesce a farlo, certo, perché il contesto nel quale è ascrivibile quel testo è europeo, sovranazionale, e quindi Meloni ha molto più margine rispetto a quando si parla, ad esempio, della Costituzione italiana o del 25 Aprile (rispetto ai quali l’elastico è invece molto più teso - tra la necessità di strizzare l’occhio al suo elettorato e il giuramento prestato dal suo governo nei confronti della Repubblica e quindi di tutti i cittadini italiani).
Ritengo, pertanto, quello della leader di Fratelli d’Italia su Ventotene: un ottimo intervento. Perché sgombra il campo dagli equivoci, non è ipocrita.
E devo dire che ho tirato un sospiro di sollievo perché mi è sembrata la prima volta in cui non sia stata la stessa sinistra ad abbattere un proprio pilastro, per la solita - stolida - paura di apparire troppo antica. L’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, o il finanziamento pubblico ai partiti e ai giornali, li hanno infatti stracciati i governi di centro-sinistra, dopo che per una vita avevano tentato invano di affossarli quelli di centro-destra. Dunque mi sarei potuta perfettamente aspettare che prima o poi qualcuno, dalle parti del Partito Democratico, alzasse una mano per dire: “Manifesto di Ventotene? E’ come prendere un iPhone e dire dove metto il gettone del telefono? O una macchina digitale e metterci il rullino. E' finita l'Italia del rullino!”.
Invece, stavolta, questa cosa dell’iPhone e del gettone l’ha detta Giorgia Meloni.
Che poi non ha detto un’assurdità in termini assoluti. Perché è ovvio che un testo elaborato negli Anni Quaranta del secolo scorso non possa essere letto alla lettera nel 2025. Ma è anche palese che il terreno di scontro sia politico e non filologico: è palese che nemmeno Meloni pensi seriamente che qualcuno, oggi a sinistra, possa davvero pensare che la proprietà privata dovrebbe essere abolita. La presidente del Consiglio voleva solo segnare una distanza tra destra e sinistra su un fondamento della costruzione europea, e non su una soffitta - un singolo concetto, una virgola, un ideale, il futuro.
In tutto questo la reazione più inattesa è stata quella di Romano Prodi.
Chi c’era nei Novanta, infatti, se lo immagina sempre e solo nell’imitazione di Corrado Guzzanti al Pippo Chennedy Show: “sto sempre qua, fermo, come un semaforo”. Ma quel ricordo, così mite e così democristiano, è stato sostituito dal fermo immagine più pop della sua intera carriera politica.
E’ un fermo immagine, e non un meme.
Perciò non è: “Ma che cavolo mi chiede”, in risposta alla giornalista di Quarta Repubblica, il programma condotto da Nicola Porro, che chiede a Prodi cosa pensi del passaggio sulla proprietà privata citato da Meloni.
Non è: Prodi che, obiettivamente con un gesto inconsulto per il quale io comunque mi scuserei, stringe per un attimo una ciocca di capelli della giornalista Mediaset per dare un senso alla frase “non sono un bambino” (che si accapiglia).
Ma è: Prodi che risponde a quella domanda provocatoria - “quindi è d’accordo con quello che ha detto Giorgia Meloni?” - avendo alle spalle una scritta, scritta a mano su un muro dell’Auditorium di Roma, che fa così: “Not in my name”.
Fausto Bertinotti, invece, è sempre lui, uguale e identico a come lo ricordavo (sempre nell’imitazione di Guzzanti: “Cosa ho detto? Ho sparato una serie di cazzate, numeri a caso. Capisce? Siamo inaffidabili. Questa sinistra? Mi sta antipatica”). Lo sfascista.
Su Ventotene infatti ha detto: “avrei lanciato un oggetto contundente verso la Presidente del Consiglio”. Una di quelle frasi che io considero del tutto irricevibili. Perché sbiadisce le differenze, è come un giro di trecentosessanta gradi che ti riporta al punto di partenza, cioè a Giorgia Meloni, anche se pensi di essertene allontanato quanto più possibile.
Nel bel mezzo di questo angolo giro, il responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, ieri ha rifiutato di parlare con i giornalisti presenti a Montecitorio, motivando con queste parole la sua defezione: “Finché c'è questo pezzo di merda non parlo”. Si riferisce a un cronista del Fatto Quotidiano, Giacomo Salvini, autore del libro Fratelli di chat (al quale però non è stato torto un capello).
Considero assolutamente inaccettabile quel “non parlo”. So che sembrerà una battuta, ma non lo è. Perché dall’insulto Salvini si può difendere con facilità, molto più grave è che un parlamentare possa impedirgli di fatto di lavorare; che un parlamentare pensi di potersi scegliere i giornalisti coi quali parlare; che si crei un clima per cui Salvini non può ricevere solidarietà da parte dei suoi colleghi salvo che pure quelli accettino di finire nella lista nera di Donzelli e quindi di non lavorare più.
Ma allora ditelo, che volete che vi parli di Massimo D’Alema. Il mio pensiero, infatti, torna necessariamente a quel suo “vada a farsi fottere” rivolto a Sallusti, durante una puntata di Ballarò, su Rai3, che all’epoca era ancora condotto da Giovanni Floris.
Ma soprattutto a Massimo D’Alema ospite di PiazzaPulita assieme a Damilano. L’allora vicedirettore dell’Espresso, per dirla alla Lucio Corsi, voleva essere un duro: “Nel 1998 lei disse a Prodi 'Romano, stai sereno’…”.
Sorrideva ed era molto divertito dalla sua propria battuta, Marco Damilano, ma un secondo dopo era sbiancato in diretta perché D’Alema non si stava divertendo per nulla: “Lei è uno stupido”.
Il punto è che non dovrebbe esistere oggetto più contundente, per la gente di sinistra, della propria intelligenza, nessuna arma più affilata della parola. E il punto è che lo sbocco naturale della passione politica è il conflitto politico, “cuore del meccanismo democratico” e “un lievito di libertà”, come lo ha definito qualche anno fa Nadia Urbinati in “Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo” (Laterza).
Gli scontri su Ventotene sono quindi un’ottima notizia: meno gite di Ferragosto sull’isola e più legna da ardere per scaldare gli animi in questo lungo inverno europeo. Ma anche le liti tra giornalisti e politici, sono una buona notizia: “ma che cavolo mi chiede”, “le avrei tirato un libro in testa”, “stupido” e “pezzo di merda” non stanno tutti su uno stesso piano, ma ognuno si esprime con le parole che sa e sulla base del cervello che ha. In ogni caso è sempre meglio uno scontro aperto, se rimane fondamentalmente leale, che un quieto vivere.