Nel 2020 ho scritto tre mail, ad altrettante persone con le quali ero in contatto e che si occupavano in modi diversi di comunicazione, nelle quali in sintesi dicevo: guardate che i social network hanno gli anni contati, bisogna inventare qualcosa di nuovo. Guardate che questo modello così gonfio di contraddizioni, questo modello in cui gli esseri umani sono la merce, non può mica reggere ancora molto a lungo. Lo dicevo nel momento di massima accelerazione nell’utilizzo dei social, indotta dal lockdown.
Quel picco a me diceva: da qui in poi si potrà solo scendere, questa bolla esploderà. Mentre a tutti gli altri diceva: la festa non è ancora finita, il meglio deve ancora arrivare.
A distanza di cinque anni (un periodo lunghissimo solo per chi vive di quarti d’ora di celebrità) è molto più chiaro a tutti quale sia la direzione: siamo entrati chiaramente in una fase di forte disincanto collettivo. Del resto se l’impero della principale influencer italiana può crollare da un giorno all’altro - può crollare senza che qualcuno riesca davvero a crederci nemmeno mentre crolla - chi potrà ancora sentirsi al sicuro? E’ un’onda che va, è un’onda che viene e che va.
Ma battere in ritirata oggi, dopo aver guadagnato tutto quello che era possibile guadagnare da un sistema manifestamente malato, palesemente malato soprattutto per chi aveva tutti gli strumenti per decifrarne le storture, è ipocrita. Anche perché i pentiti di oggi, i convertiti, gli affranti, non si accontentano di un’autoassoluzione, hanno l’ambire d’insegnare come si sta al mondo a tutte le persone che non hanno giocato a quel gioco perverso che sono stati i social network negli ultimi dieci anni. Sono solo gli ultimi fuochi d’artificio, gli ultimi profitti, l’ultimo colpo di coda di un animale morente ma sempre affamato. Talmente affamato che banchetta perfino sulle macerie. Buon appetito.
Io credo che si possa iniziare a dire che era tutto un inganno. Non qualcosa, non qualcuno. Tutto e tutti. Un abbaglio. Credo che l’allucinazione sia stata alimentata prima di tutto da quell’assurda pretesa di esibire online nome e cognome anagrafici “perché questa non è una terra di nessuno”. E allora benvenuti nel mondo reale.
Prima, invece, esistevano i nickname: non per nascondersi, non per sottrarsi, non per insultare la gente a caso e rimanere impuniti ma perché nessuno era così scemo da pensare che l’Io dietro uno schermo fosse lo stesso Io, proprio lo stesso, che andava a lavoro, a fare la spesa, a innamorarsi, a ubriacarsi, a manifestare.
In effetti “favorisca i documenti”, detto da uno che non indossa una divisa e che di mestiere commercia in dati personali, non avrebbe dovuto suggerire niente di buono. Era il preludio di quello che sarebbe stato. Uno stato di polizia allo stato brado.
Infatti è andata a finire che l’occupazione principale di quelli con l’onomastico è diventata portare in tribunale quelli senza onomastico e che tutti si sono convinti che tutto quello che vedevano sul cellulare fosse autentico e non una recita.
Da lunedì, su Sky Crime, hanno iniziato a trasmettere Lies Anatomy, un documentario in tre puntate che racconta la storia di Elisabeth Finch, autrice di Grey's Anatomy. Un’autrice considerata mediocre finché non si è cucita addosso un mito che ha deformato completamente il giudizio dei colleghi nei suoi confronti.
Un cancro alle ossa, gli abusi subiti in famiglia, un disturbo post-traumatico da stress, tutte le sfighe del mondo: era tutto troppo - tutti percepivano che era un po’ troppo - ma Elisabeth Finch ha fatto comunque carriera. Perché, anche se chi la osservava nella writers' room nutriva dei dubbi sul suo conto, la sua immagine pubblica - trasmessa via social, riviste, podcast - era dominante. Tutti, tra quelli che non la conoscevano, credevano alle sue bugie. E tanto bastava perché anche chi la conosceva molto bene chiudesse un occhio.
Ma Elisabeth Finch è solo un uomo qualunque, il riassunto degli ultimi anni. Si nasconde dentro decine di personaggi con carriere fulminanti e miracolose, tutti accomunati da una certa dose di “quanto ho sofferto”, tutti nati sui social dal nulla, tutti caratterizzati da un’identità estrema ma scissa - cattivissimi per alcuni, buonissimi per altri -, tutti abili nel ripiegare emotivamente - manipolare l’emotività altrui - appena le cose si mettono male. Elisabeth Finch si nasconde ovunque si abbia la netta sensazione che qualcosa non torni e in contemporanea la sensazione che mettersi a fare i calcoli vorrebbe dire vedersi crollare addosso un mondo. Ma questo non è il mondo, è solo un castello di carta, destinato intrinsecamente a franare. E infatti, pezzo dopo pezzo, sta franando. Anche se in pochi volevano che franasse, mentre davvero interessante sarebbe stato farlo franare quando sembrava impossibile.
Qualche giorno fa ho letto che in Be Water, la società che controlla Chora Media e Will, c’è stato un aumento di capitale da 10 milioni di euro con l’ingresso di Tether, un emittente di stablecoin. Guido Brera, fondatore di Chora, dice: “ora puntiamo anche a sviluppare una nostra app. I consumatori dell’intrattenimento stanno iniziando a soffrire di un eccesso di scelta e gli algoritmi in genere guardano sempre alle scelte passate dell’utente per selezionare i contenuti da sottoporgli. E’ proprio per bucare questa bolla che abbiamo bisogno di un’app proprietaria e di investire in tecnologia: Tether è una società che utilizza la tecnologia per creare valore e non per estrarlo”. Infine: “parafrasando David Foster Wallace, la tecnologia è un ottimo servitore ma un pessimo padrone”.
L’epitaffio perfetto per questa epoca. Amen.